Il pensiero occidentale astrae e categorizza entità come “la montagna”, “il mare”, “la scienza”, “la medicina” identificando i tratti comuni, per esempio, ad ogni luogo montuoso e tralasciando le peculiarità dei singoli specifici luoghi montani: il processo si spinge a tal punto da categorizzare entità a se stanti, così “reali” nella mente, benché inesistenti nel mondo reale, e così “standardizzate” da renderci un luogo di montagna non del tutto apprezzabile come tale se non risponde alle categorie astratte prefissate nel pensiero. Tale è la familiarità con questo modo di pensare l’esistente da farci esprimere abitualmente con frasi quali “andrò al mare nel finesettimana”, anziché “andrò a Camogli nel finesettimana”, senza renderci conto della stortura, della deformazione del reale che operiamo attraverso le parole e il pensiero che le genera e in ultima analisi dell’auto-inganno che produciamo se non manteniamo viva la consapevolezza del processo di astrazione operato dalla nostra mente e dei limiti che lo caratterizzano intrinsecamente.
Così come non esiste “la montagna”, bensì esistono il Monte Cervino, il Monte Everest, il Monte Gennargentu e il Monte Fuji – e non sfuggiranno le enormi differenze fra l’uno e gli altri - così non esiste “la medicina” né esiste “la scienza” se non come categorie astratte. Non esiste “la medicina”: esistono i medici; non esiste “la scienza”: esistono i ricercatori che producono lavori scientifici, ovvero ricerche che rispondono ad una serie di requisiti di rigore metodologico e che portano ad un certo tipo di conoscenza della realtà. Esistono cioè persone che sono nate, si sono formate e vivono all’interno del contesto sociale e culturale a loro contemporaneo, ne sono parte e da esso sono inevitabilmente influenzate. Persone che raramente svolgono la propria professione in maniera del tutto autonoma e indipendente, bensì operano all’interno e per conto di istituzioni o grandi aziende, ai cui regolamenti interni devono sottostare, che devono attenersi alla deontologia professionale così come declinata dagli Ordini di appartenenza e alle vigenti leggi dello Stato. È quindi evidente come non si possa considerare il sapere scientifico o la pratica medica come qualcosa di separato o di altro rispetto alla società nella quale si manifestano, a cui attribuire potere di guida o di “catechesi”, mentre sia realisticamente corretto considerare la pratica medica e la ricerca scientifica come diretta espressione del contesto socio-culturale e legislativo all’interno del quale esse vengono generate. Date queste premesse si può ben comprendere come la frase “io mi fido della scienza” dovrebbe per lo meno essere riformulata in “io conosco il metodo scientifico, ne conosco e riconosco i limiti, lo ritengo un valido metodo di studio della realtà, pertanto scelgo di affidare la cura della mia salute a persone che conoscano e sappiano applicare le conoscenze derivate da studi realizzati secondo il metodo scientifico, pur sapendo che esse non sono da considerarsi in alcun caso nè conclusive né scevre da errore”.
Di più, per poter fare tale affermazione in maniera consapevole occorrerebbe conoscere, oltre che i principi e i limiti del metodo scientifico (che per sua stessa definizione è esattamente antitetico all’atto di fede ed è incompatibile con le categorie di fede, fiducia e affidamento, essendo fondato sulla categoria di dubbio e messa in dubbio), occorrerebbe conoscere, dicevamo, anche e soprattutto chi sono le persone o meglio le istituzioni, le aziende, le società scientifiche che realizzano gli studi scientifici e chi sono le persone che esercitano la professione medica, o meglio le istituzioni, gli Ordini professionali e le leggi che ne disciplinano l’operato nell’attuale contesto socio-culturale, quali sono i percorsi formativi che portano a svolgere le professioni scientifiche e a quale etica ispirano o vincolano il proprio operato.
Domanda: lo sappiamo? Possiamo dire di conoscere adeguatamente da chi sono composte le Società Scientifiche, le Istituzioni e le grandi Corporates della salute, quali finalità abbiano, a quali principi etici si conformano, come vengono sovvenzionate, chi verifica la correttezza del loro agire? Sappiamo da chi sono composti e come sono regolamentati e sovvenzionati gli Ordini dei Medici, cioè gli organi preposti alla verifica della correttezza della pratica medica a tutela del cittadino? Sappiamo da chi sono composte, come sono sovvenzionate e quale offerta formativa danno le Università dove i medici e i ricercatori si formano, i corsi post-lauream, e quelli di Educazione Continua in Medicina? Lo sappiamo in maniera circostanziata e documentata o presumiamo di saperlo o diamo per assunto che chi compone questi organi istituzionali e/o chi è preposto a verificarne l’operato svolgano pienamente e in maniera affidabile il proprio compito? Di chi ci stiamo fidando quando diciamo di fidarci della scienza e di cosa stiamo parlando quando diciamo “scienza”? Sono tutte domande a cui dovremmo saper rispondere compiutamente, in quanto adulti consapevoli e responsabili. Pena, risultare più simili a burattini menati per il naso a suon di slogan…
Guy Debord, alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, ha definito la contemporaneità come “società dello spettacolo” (1), spettacolo inteso come modalità di rapporto sociale fra gli individui mediato dall’immagine, immagine che non è rappresentazione del mondo reale ma deformazione del reale, fino a divenire inversione e sostituzione del reale. Debord definisce lo spettacolo come il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine. La spettacolarizzazione della realtà prende il posto della religione, si propone come positività libera da limiti e vincoli, scevra da conflitti e interrogativi, pacificata e risolta, e finisce col sostituire la realtà nella percezione mediata (e obnubilata) dall’immagine. Quella di Debord è una delle possibili rappresentazioni della società occidentale contemporanea, non la sola, ed è una rappresentazione critica di impronta marxista ma certo non si può fare a meno di riconoscervi degli elementi di verità. Basti pensare alla centralità dei media, in particolare dei social media nella vita relazionale di ciascuno: quasi nessuno più sente di esistere se non è presente con la sua foto – la sua immagine – su Facebook o analogo social. Quasi nessuno più crede che un evento sia realmente accaduto se non vede le immagini o la registrazione in un video (anche se magari contraffatto) al TG o su YouTube e, viceversa, a quasi tutti basta vedere in TV o sui social media le immagini di un accadimento per crederlo reale; quasi più nessuno riesce a godere del piatto che ha in tavola davanti a sè o del mare che ha di fronte e in cui si sta immergendo se non lo immortala in una foto da mostrare spettacolarmente sul proprio social perché altri, per lo più completi sconosciuti, possano vederlo. Mille altri potrebbero essere gli esempi di come la smania dell’immagine abbia preso la collettività e sarebbe ingenuo credere che possa aver risparmiato il mondo accademico e medico-scientifico che di tale collettività è parte ed espressione: “alla TAC non si vede niente, quindi il dolore che lei sente, signora, non è niente” e viceversa “come fa a dirlo, dottore, se non mi fa fare almeno una TAC per vedere?” Sono frasi della quotidianità di ciascuno.
Un eccesso, una moltitudine, una miriade di immagini, tale da soffocare qualsiasi spazio di fantasia e di riflessione, tale da gonfiare enormi, infantili e fragilissimi narcisismi, da creare una coltre piatta, bidimensionale, insondabile e inaccessibile alla profondità del ragionamento, tale da rendere pressoché impossibile il sentire o l’ascoltare o il toccare o il pensare e ragionare. Una coltre violentemente e banalmente maligna.
Seguendo la riflessione di Debord e osservando la contemporaneità, a oltre 50 anni dalla sua analisi, potremmo considerare la società dello spettacolo come ulteriormente evoluta (o involuta) nella società della parodia, cioè di quel particolare genere di spettacolo che fa del grottesco, della farsa e del dileggio i suoi tratti principali. “L’ascesa dell’ignoranza, l’espansione della bruttezza, del disprezzo delle classi dirigenti per i popoli, il trionfo del narcisismo immaturo” per usare le parole di Alain De Benoist (2) caratterizzano la contemporaneità. Potremmo aggiungere la dissoluzione della famiglia e della comunità, intesa come insieme di individui uniti dalla condivisione di medesimi ideali, lingua, usi e tradizioni, il capovolgimento dei significati, la perdita del Logos, della memoria e del sacro, la dissoluzione dell’etica, della mente e delle identità sono le stigma di una civiltà decadente che, a dispetto del grande sapere e delle grandi opere che ha dato all’umanità nel corso dei secoli, pare aver smarrito se stessa nell’autoinganno e, dopo aver mercificato tutto l’esistente, pare essersi avviata verso una china mortifera e suicidaria.
Dietro le quinte dello spettacolo, Shoshana Zuboff vede affacciarsi il capitalismo della sorveglianza (3), con l’enorme potere delle tecnologie più avanzate a disposizione per creare, da una parte, i grandi eventi collettivi da raccontare in eterni monologhi monotoni su cui appiattire la collettività riducendola a setta, dall’altra per creare per ciascuno “la realtà” più confacente e confortante, per mantenere ciascuno dentro il perimetro dell’utile, per rendere ciascuno sempre più isolato all’interno di una società che si racconta pacificata mentre rende perpetuo il conflitto di tutti contro tutti. I dati diventano strumento di conoscenza e di controllo, i dati diventano il petrolio del terzo millennio: i dati biometrici, i dati della “salute” non fanno eccezione anzi sono gli ambitissimi dati del “prodotto umano”. Tutto è merce nelle società occidentali contemporanee, anche l’essere umano, anche il bene salute: la sua percezione, la sua cura, la sua perdita, la cronicizzazione della sua perdita, il suo controllo, la nascita e il fine-vita.
Chi detiene i dati della merce ne fa il prezzo e ne determina il mercato.
Di questa società, dove l’immagine ha sostituito la realtà, dove il lucro ha sostituito l’etica, dove l’umano è merce, dove il patto sociale alla base della vita di comunità ha lasciato il posto al cieco individualismo narcisista bieco e predatorio, sono parte ed espressione le istituzioni sanitarie e le società scientifiche, i loro operatori e rappresentanti. Possiamo ragionevolmente attenderci che una tale filiera sia in grado di generare salute? Possiamo ragionevolmente e fondatamente affermare che i comuni cittadini, le Istituzioni e le grandi Corporates del farmaco e dei dispositivi medico-chirurgici e della ricerca scientifica condividano i medesimi interessi e le medesime finalità di saluto-genesi?
Gli esempi di grandi scandali legati a farmaci che sono stati commercializzati pur essendo noti ai produttori i potenziali effetti dannosi su larga scala e ritirati dal commercio solo dopo l’emergere di numerosissimi casi di persone danneggiate anche in maniera irrimediabile sono numerosi e sono noti ai più. Ciò che stupisce sempre è la disponibilità dei più ad accettare questi eventi come “inevitabili”, come se alla mercificazione del tutto e al lucro di pochi sul tutto non ci fosse alternativa, come se non l’etica, non la logica e neppure la stessa vita potessero porre limite al lucro e alle sue dinamiche predatorie. Come se ai più bastasse l’illusione di poter godere un giorno di analogo potere senza limite, per accettare di buon grado di ritrovarsi in realtà, per la totalità della propria esistenza, dalla parte del depredato.
(1) Guy Debord, “La società dello spettacolo”, 1967
(2) Alain De Benoist “L’exil intérieur. Carnets intimes”, 2022
(3) Shoshana Zuboff, “The age of Surveillance Capitalism. The Fight for the future at new frontiere of Power”, 2018