Sono un medico con specialità internistica. M’interesso quindi prevalentemente della patologia organica di un apparato del corpo umano. Sono parecchi anni che esercito, e oggi, mi ritrovo quasi inevitabilmente a un punto della mia vita professionale in cui sono sempre più consapevole che davanti a me si presentano persone nella loro interezza. La comunicazione, che è il fondamento su cui poggia il costrutto della richiesta di assistenza, viene esercitata attraverso il vissuto psichico di un sintomo, di un disagio e di una possibile malattia.
Il dualismo corpo psiche non può essere interpretato nei termini di ruoli medici distinti. La medicina è psicologia e viceversa. Qualunque malattia organica implica un vissuto emotivo, più o meno intenso a seconda delle caratteristiche della persona. Il medico dovrebbe tenere ben presente questo aspetto.
L’inquietudine di fronte a una malattia, o al sospetto di essa, credo sia la componente centrale su cui la nostra attenzione dovrebbe ricadere. Si dovrebbe avere sempre coscienza di quanto impatta l’ansia per cercare di modularla e non renderla un’alleata della malattia. La fisiopatologia di una malattia implica una serie di nozioni piuttosto fredde che servono a noi medici per formulare ipotesi diagnostico-terapeutiche che devono essere trasferite al paziente con i dovuti filtri “emotivi”. Senza questa attenzione e sensibilità potremmo gravare il paziente di ulteriori incertezze e angosce.
Gli ultimi due anni di racconto pandemico hanno esaltato queste tematiche. Non vi è più solo la paura del singolo di fronte alla sua malattia ma s’inseriscono elementi che coinvolgono i rapporti con gli altri e in generale con la società. La paura è anche quella relativa all’esclusione sociale e alle conseguenze che questo comporta. Essere allontanati da una sorta di rito purificatore collettivo ha ricadute importanti sugli equilibri personali.
Le responsabilità in gioco sono enormi. Infatti gli aspetti psicologici e sociali si possono rilevare in ogni colloquio tra medico-psicologo-paziente . La comunicazione ha utilizzato in modo martellante i temi della morte, le intubazioni, il calvario in ospedale come un sottofondo sempre presente e che si è innestato nelle persone, siano esse sane o ammalate.
La narrazione prevalente è stata caratterizzata da semplificazioni, banalizzazioni e moralismi. Modalità che hanno creato voragini di smarrimento e terrore. Il bisogno di sicurezza che la nostra società ha amplificato in tutti noi ha determinato un dogmatismo che ha limitato le possibilità di dialogo.
L’ipermedicalizzazione che abbiamo visto imporsi negli ultimi anni è l’aspetto peculiare di una iperdipendenza da fattori esterni rispetto alle interiorità del singolo. Vi è una schiavitù da imput esterni, verso cui ci rivolgiamo per colmare le nostre fratture interiori. Stiamo sempre più delegando al “fuori” la soluzione delle nostre fragilità. I farmaci rappresentano la summa della soluzione esterna. Ancora più evidente per i farmaci psichiatrici, disinvoltamente prescritti anche ai giovanissimi. Proprio l’altro ieri ho incontrato un ragazzino di 11 anni che aveva già al suo attivo la prescrizione di due psicofarmaci. Ovviamente nessuna preclusione assoluta verso gli psicofarmaci, ma ancora una volta occorrerebbe soffermarsi sul singolo e valutare, senza gabbie protocollari, tutte le varie strade terapeutiche evitando facili scorciatoie.
Non solo farmaci sono le richieste esterne. Manuali, regole, rappresentazioni del sé manipolate (social in primis) e molto altro, stanno sostituendo l’essenza del nostro essere nell’interrogarsi e nell’affrontare i nostri conflitti. In definitiva la ipermedicalizzazione è una componente di una esternalizzazione più ampia, sorretta da intricati meccanismi sociali che ci allontanano dai nostri fisiologici dis-equilibri per offrirci facili soluzioni che, al contrario, li accentuano perché estranee e lontane dai possibili tentativi di autochiarificazione e autorisanamento.
La medicina e la psicologia dovrebbero essere consce di quante storture possono contribuire ad edificare. Le manipolazioni sociali che sono avvenute e stanno avvenendo non possono trovare nei sanitari complici asettici che creano ulteriori divisioni tra le persone, stabilendo dogmi e semplificazioni inaccettabili. In questo le responsabilità di medici, psichiatri e psicologi sono enormi e duole osservare, soprattutto tra alcuni professionisti dell’interiorità, atteggiamenti goffamente rivolti al mantenimento di uno stato di allarme permanente.
Enrico Iavarone, Medico Cardiologo.
Bergamo.